
Il minimalismo spirituale dietro ‘Soglie costruite a partire dal Contrappasso’
A prima vista, Soglie costruite a partire dal Contrappasso, la luminosa triade di Kamil Kaplan installata presso il Palazzo della Zattere a Venezia, appare come una collisione poetica di geometria e colore — una purezza cromatica ed elegante, emblema della precisione minimalista. Ma basta soffermarvisi anche solo un istante in più per scoprire che non si tratta di opere sulla forma, bensì di opere sulla trasformazione interiore. Il titolo stesso, tratto dall’Inferno di Dante, segnala l’ambizione metafisica dell’esposizione: il contrappasso — il principio di giustizia poetica nell’aldilà, dove la pena rispecchia il peccato — diventa, nella mano di Kaplan, uno specchio percettivo, un meccanismo spirituale che riflette e rifrange lo sguardo con inesorabile ricorsività.
Ogni lightbox di Kaplan, mutevole a seconda dell’angolazione dello spettatore, è al contempo immagine e apparizione. Gli spazi che rivelano non sono stabili né fissi; tremolano tra stati diversi, come paradossi morali sospesi in un mezzo di luminosità ingegnerizzata. Non si tratta semplicemente di opere da osservare, ma di soglie da attraversare — fasi iniziatiche in un rito metafisico silenzioso. Qui, il minimalismo spirituale non nasce dalla riduzione, ma da una carica simbolica distillata, incorporata nella geometria di Kaplan. Non ci si pone davanti a queste opere come osservatori. Si viene collocati dentro di esse — accusati, coinvolti, invitati.
La pratica di Kaplan, affinata nel corso degli anni attraverso l’uso di plexiglass, resina reattiva ai raggi UV e acrilici modulati cromaticamente, evoca la disciplina strutturale dell’estetica minimalista, rivelando al contempo un nucleo rituale nascosto. I suoi pannelli sono architettonici, ma la loro architettura non è quella del rifugio o dello spazio — è quella del giudizio, della memoria, della ricorsività. Il peso spirituale di Soglie costruite a partire dal Contrappasso risiede nel suo paradosso: ogni pezzo invita alla quiete, ma nega il riposo; offre colore, solo per celare la profondità dietro veli rifrangenti. Come i dannati danteschi che vagano per terreni simbolici infiniti, lo spettatore diventa qui un viandante in una geometria che muta costantemente di tono morale e metafisico.
In mostra fino all’11 dicembre 2023 presso il Palazzo della Zattere, Soglie costruite a partire dal Contrappasso occupa un luogo culturalmente risonante. La posizione della galleria, sospesa sopra il flusso dei canali veneziani, la rende un ospite ideale per le geometrie mercuriali di Kaplan. I visitatori sono invitati non semplicemente a vedere, ma a muoversi, a tornare, a confrontarsi con il modo in cui le proprie posizioni mutevoli generano nuovi fenomeni visivi. Non è un incontro passivo, ma un’esperienza di durata — dove l’opera, come la città che la ospita, scivola costantemente tra le apparenze.
Questo richiamo dantesco, ben lontano dall’essere superficiale, funge da fondamento letterario su cui si dispiegano le innovazioni formali di Kaplan. Nell’Inferno, il contrappasso non è mera punizione — è riflessione. L’anima è costretta a riaffrontare la propria essenza, rivoltata contro se stessa in simmetria poetica. Kaplan interiorizza questo principio non nella narrazione, ma nella logica spaziale. Le sue lightbox si comportano come strofe letterarie: si piegano, si ripetono, sviluppano motivi, e generano significato non attraverso l’immagine, ma attraverso la durata e il ritardo. Bisogna muoversi per vederle appieno, e in quel movimento, l’opera cambia — diventando così meno un oggetto da vedere e più una narrazione generata dallo sguardo stesso.
Ciò che rende così profondo il minimalismo spirituale di Kaplan è la sua capacità di fondere struttura letteraria e processo materiale. Come i labirinti di Borges o le Città invisibili di Calvino, i suoi spazi sono motori metaforici, architetture ricorsive in cui l’anima non è soltanto riflessa, ma frammentata. La sua tavolozza — rosa vaporosi, blu irradiati, ombre verdastre, rossi infernali — non vive nel regno del puro estetismo. Questi colori vibrano sul limite della frequenza emotiva, codificati da residui psicologici. Agiscono come personaggi narrativi: umori, ombre, soglie verso mondi psichici sotterranei. Le prospettive mutevoli offerte da ogni box funzionano come colpi di scena narrativi, evocando un formalismo affine alla narrativa postmoderna: ricorsiva, spazialmente instabile, emotivamente carica.
La tecnica di Kaplan non è un semplice dialogo mimetico con la digitalità, ma una sua trasfigurazione metafisica. Egli prende in prestito la logica dello schermo — trasparenze stratificate, luminosità interna, interattività reattiva — e la rende sacra. Le sue opere non si comportano come immagini statiche; si comportano come domande. Stare davanti a una di esse significa sottomettersi a un’interrogazione: cosa si sta vedendo? Da quale angolazione? È verità o proiezione? Viene spontaneo tornare a Dante: la visione come punizione, la conoscenza come ferita, la rivelazione come introspezione.
E tuttavia, le opere contrappuntistiche di Kaplan non sono mai didascaliche. Galleggiano con il silenzio arcano delle icone. Il loro silenzio è rituale, la loro ambiguità deliberata. È forse questo che distingue il progetto di Kaplan dai filoni più clinici del minimalismo: il suo lavoro non è sulla chiarezza, ma sulla presenza. Ogni opera è una soglia devozionale, una reliquia dell’invisibile. Non si “risolve” una scatola di Kaplan — ci si dimora dentro la sua irresolubilità.
La sede dell’installazione — il Palazzo della Zattere, sospeso sopra la luce e l’acqua mutevoli di Venezia — intensifica la sua etica riflessiva. La città stessa, sempre specchiante e frammentata, diventa una metafora vivente del lavoro di Kaplan: una geografia labirintica dove visibilità e percezione sono costantemente in negoziazione. Le lightbox di Kaplan riecheggiano questa condizione. Scintillano come i canali veneziani, destabilizzate a ogni passo, eppure sospese in una logica più profonda della superficie — ciò che Bachelard avrebbe chiamato immensità intima.
In termini letterari, l’opera di Kaplan può essere letta come una forma di poetica spaziale. Le scatole sono strofe in un testo non verbale, una teologia visiva di soglie e ricorsività. Come nel verso poetico, ogni bordo è un confine che suggerisce altro — ogni rientranza una cesura, ogni campo cromatico un enjambement metaforico. Kaplan non narra, ma coreografa — la percezione diventa una forma di lettura, e il corpo di ogni spettatore una frase nel testo architettonico.
In definitiva, Soglie costruite a partire dal Contrappasso non è una mostra. È un evento metafisico. Segna Kaplan non solo come successore di artisti della Light and Space come Turrell e Irwin, ma come evoluzione del loro ethos — un ponte tra fenomenologia e indagine simbolica, tra logica spaziale e architettura letteraria. Il suo lavoro non si limita a modificare la percezione. Ci chiede a cosa serva percepire. E così, Kaplan rivendica lo spazio stesso — non come contenitore neutro, ma come sintassi spirituale, una grammatica abitata dell’invisibile.
Il contrappasso non è punizione.
È rivelazione.
È lo specchio che si volta indietro.