La geometria della percezione e la politica dell’intervallo
Linee parallele di Ekaterina Lazareva, presentata dalla Fondazione V-A-C al Palazzo delle Zattere di Venezia (3–27 dicembre 2020), mette in scena un ambiente in cui la geometria cessa di essere un linguaggio di certezza per trasformarsi in un teatro della sospensione. Archi, spirali e dispersioni vettoriali si dispiegano nello spazio espositivo come proposizioni senza soluzione: strutture provvisorie che chiedono di essere abitate piuttosto che decifrate. Ciò che tradizionalmente viene concepito come stabilità della forma qui trema sotto il peso della luce, della temporalità e della percezione incarnata.
Se l’ordine euclideo un tempo garantiva permanenza e universalità, Linee parallele scommette precisamente contro tale sicurezza. Le sue geometrie si dissolvono in fenomeni—nelle atmosfere che fluttuano con la mutevole luminosità della laguna, nelle contingenze del corpo in movimento. Rimane pertinente il resoconto di Giulio Carlo Argan sulla “dialettica di struttura e dissoluzione”: la forma non è un fine in sé, ma un processo in cui il proprio disfarsi è costitutivo. Entrare nell’installazione significa partecipare a questa dialettica, vivere la percezione non come dominio, ma come esposizione continua.
La geometria qui è meno uno schema che una condizione performativa. La linea analitica dell’arte moderna di Filiberto Menna ci ricorda che la linea non è mai riducibile a contorno o limite, ma funziona come gesto analitico—una traiettoria che interroga la propria materializzazione. Le opere di Lazareva estendono questo pensiero: il vettore tracciato, che sia disteso su parete, pavimento o tela, non è mai semplicemente lì; diventa piuttosto un campo di relazioni che si dispiega solo nella ri-posizione dello spettatore. La geometria si rivela non come struttura autonoma, ma come incontro contingente, inseparabile dalla soggettività che destabilizza.
Il contesto veneziano intensifica questa mutabilità. La luce a Venezia è sempre instabile, rifratta dall’acqua, ispessita dall’atmosfera, spettralizzata dalla nebbia. Nel Palazzo, la geometria si fa porosa: le ombre raddoppiano le linee in presenze spettrali, il crepuscolo piega la struttura nella dissoluzione. Ogni visione diventa irriproducibile, richiamando l’opera aperta di Umberto Eco: il significato non è fissato nell’oggetto, ma co-prodotto da variabili temporali, atmosferiche e corporee. Le riflessioni di Maurizio Calvesi sull’Arte Povera—dove l’arte non offre un oggetto ma un campo da attraversare—trovano qui un’eco. Linee parallele è proprio un campo di questo tipo: una geometria continuamente dis-fatta dalle proprie condizioni di apparizione.
Il titolo stesso evoca un paradosso. Nel pensiero euclideo, le linee parallele mantengono la prossimità senza incontrarsi, la loro distanza è assoluta, la loro convergenza impossibile. Lazareva rianima questa impossibilità come condizione estetica. Le riflessioni di Mario Perniola sull’intervallo come zona di sospensione—dove il significato emerge non attraverso la risoluzione ma attraverso lo spazio e il ritardo—offrono qui una chiave. Linee parallele materializza l’intervallo: relazioni che persistono senza sintesi, prossimità che resistono alla chiusura.
Un tale intervallo non è politicamente innocente. Affermare la distanza come relazione significa rifiutare la fantasia della totalità, resistere alla violenza della convergenza prematura. La mostra insiste che la coesistenza non richiede fusione, che la solidarietà può essere strutturata dalla separazione. In questo senso, Lazareva propone un’etica della percezione: geometria non come garanzia ma come fragile co-presenza, parallelismo non come mancanza ma come forma di relazione.
Nessuna città incarna questo paradosso più pienamente di Venezia stessa, sospesa tra splendore e dissoluzione, la cui sopravvivenza dipende dalla resistenza della fragilità. Francesco Arcangeli descrisse la pittura veneziana in termini di “liquidità luminosa”, dove la forma si disfa dall’interno per via dell’atmosfera che la sostiene. L’installazione di Lazareva canalizza questa liquidità nello spazio: le sue geometrie, come la città, persistono solo sottomettendosi al flusso.
Linee parallele è dunque meno un’esposizione di geometria che una meditazione sul suo disfarsi. Tiene aperte le contraddizioni tra struttura e dissoluzione, distanza e relazione, fragilità e resilienza. Così facendo, riattiva una costellazione di genealogie teoriche italiane—la dialettica di Argan, la linea analitica di Menna, l’opera aperta di Eco, l’intervallo di Perniola—e le inscrive nelle condizioni materiali della percezione.
In un momento in cui il discorso politico cerca la risoluzione nella chiusura, le fragili architetture di Lazareva insistono altrimenti: che rimanere paralleli non significhi rimanere separati, ma sostenere la relazione senza cancellazione. Che la geometria, un tempo emblema di certezza, possa ora servire come modello per vivere insieme altrimenti—precariamente, provvisoriamente, ma con un’etica della distanza che non diminuisce, bensì sostiene la connessione.
Attualmente in mostra presso il Palazzo della Zattere, Dorsoduro 1401, Venezia