La scena del gesto scomparso

La mostra personale di Batuhan Yardımcı, allestita presso la V-A-C Foundation a Palazzo delle Zattere a Venezia, dal 3 febbraio al 9 marzo 2022, non si propone come un trionfale recupero dell’ideale classico. Al contrario, essa configura un confronto critico e intimo con le forme che hanno sostenuto l’autorità visiva europea, ora rese spettrali, disfatte, soggette a una continua implosione figurativa. Con una serie di dipinti a olio su tela, Yardımcı non rappresenta l’antichità greco-romana come un’eredità da celebrare, bensì come residuo fantasmatico—un codice estetico logoro, in bilico tra immagine ed erosione, tra superficie e sparizione.

Ciò che si dispiega nelle sale del palazzo veneziano non è tanto una raccolta di quadri quanto un repertorio disgregato di rovine simulate. Gli anfiteatri spettrali e le statue disfatte non fungono da rappresentazioni del classico, bensì da dispositivi critici che ne mettono in scena la decomposizione. Il pigmento è steso con una gestualità che suggerisce dissoluzione più che costruzione, come se la materia stessa si rifiutasse di sostenere il peso del referente. In Arena (I) e Arena (II), l’architettura romana è ridotta a stratificazioni pallide e distorte, sospese in un nero assoluto che ne cancella l’orizzonte e il contesto. Non c’è spazio per la nostalgia, ma solo per l’eco di una forma che si disfa.

Queste non sono rovine romantiche, oggetti pittoreschi della caducità: sono frammenti che mettono in scena la propria disintegrazione, carichi di memoria, opacità e tensione politica. Come scrive Elizabeth Grosz, la materia si fa iscrizione temporale: qui l’atto stesso del decadimento diviene linguaggio. Tale logica si manifesta nel processo pittorico di Yardımcı, che privilegia la stratificazione, l’erosione, la sospensione. Il gesto pittorico è ambivalente—al tempo stesso carezza e cancellazione—come se la superficie dovesse ricordare un’immagine, non raffigurarla.

Ma l’interrogazione non riguarda il passato in sé, quanto il suo riflesso nell’oggi. Invece di ripristinare il classico, Yardımcı lo estrania: lo mostra nella sua persistenza ideologica—quale fondamento della retorica nazionalista, estetica patriarcale ed episteme eurocentrica. In opere come Satyr in Collapse, il corpo maschile nudo—tradizionale emblema di virtù e permanenza—è dipinto con anatomica precisione eppure destinato alla dissoluzione: le membra sfumano nel vuoto, la muscolatura si liquefa. Il corpo classico, idealizzato per secoli, si sfalda qui in un’identità ambigua, queer, non-binaria. Yardımcı decostruisce l’estetica virile della statuaria antica, svelandone la fragilità, ridisegnandone i contorni nel linguaggio della vulnerabilità.

Non è casuale che questa riflessione abbia luogo a Venezia—città costruita sulla stratificazione di imperi, crocevia tra Oriente e Occidente, tra cristianesimo e classicità, tra sedimento e superficie. Palazzo delle Zattere, con le sue facciate neoclassiche, non è un mero contenitore ma parte integrante del dispositivo critico. Le opere abitano lo spazio architettonico come se fosse un’estensione della loro condizione semantica—non rappresentano la rovina: la performano.

La posizione diasporica dell’artista—nata in Turchia, residente nel Regno Unito—infonde al lavoro una tensione geopolitica cruciale. Yardımcı osserva l’antico attraverso uno sguardo dislocato. Le forme ellenistiche presenti tanto in Italia quanto in Turchia diventano oggetti ambigui di appropriazione e oblio, ora incorporate nei racconti nazionali, ora rimosse. Questa ambivalenza si materializza nei soggetti scelti—anfiteatri, statue minori, dettagli architettonici senza nome—che esprimono più la perdita che l’appartenenza. Come scrive Édouard Glissant, l’opacità è una forma di resistenza. Yardımcı non chiarisce; interroga l’atto stesso del vedere, della trasmissione culturale, della nostalgia estetica.

Pittoricamente, tutto si gioca in una grammatica della precarietà. Nessuna figura si compone fino in fondo. La tela è attraversata da tensioni tra rivelazione e sottrazione, tra forma e ombra. Yardımcı non “raffigura” il classico—lo disfa. Non lo rifiuta, ma lo destabilizza. Un corpo mitologico non è più emblema d’eternità, ma superficie sensibile, carica di memoria, sesso, e mutamento. La parentela più diretta non è con la tradizione accademica, ma con artisti come Paul Cézanne o Francis Alÿs: pittori per cui il gesto è sempre in divenire, sempre ritardato.

Questa etica dell’instabilità diventa dichiarazione politica. Di fronte a un’epoca che riscopre con entusiasmo una classicità idealizzata (tra colonne instagrammabili e ritorni all’ordine), Yardımcı propone una contro-monumentalità. I suoi dipinti non celebrano la permanenza, ma rendono visibile la sua illusione. Non esaltano l’antico: lo ascoltano nella sua eco indecisa. Le immagini non si presentano, ma svaniscono mentre le si guarda. Così facendo, Yardımcı lascia emergere una domanda centrale: quale parte del nostro passato continuiamo a vedere solo perché non riusciamo a lasciarla andare?

Ciò che rimane, in questa mostra, non è la forma classica, ma il suo battito cardiaco—incerto, frammentato, ancora pulsante. Yardımcı non costruisce una nostalgia. Costruisce una soglia. E in quella soglia, ci chiede non di ricordare, ma di rivedere.

9 febbraio 2022

di RAFFAELE BEDARIDA

© Per gentile concessione di Palazzo della Zattere (V-A-C Foundation)

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