
Sedimenti Architestuali
La mostra ‘Architesti’ di Oleksandra Nikitina, attualmente allestita a Palazzo della Zattere a Venezia, non presenta semplicemente immagini di città. Presenta città trasformate in sintassi. Attraverso una serie di rilievi pallidi, meticolosamente fusi, Nikitina materializza l’aldilà della forma urbana come residuo linguistico: spazi non più abitati, ma ancora leggibili linguisticamente, come se l’architettura stessa continuasse a sussurrare in un dialetto morto.
Nel 2019, alla Biennale delle Pratiche Spaziali di Riga, in Lettonia, l’artista ucraina Oleksandra Nikitina ha presentato con discrezione una delle sue opere più lungimiranti: ‘Protocolli scalari’. Composta da una serie di intricati modelli architettonici in legno—al tempo stesso struttura, diagramma e veicolo ideologico—l’opera non si poneva come studio di design, ma come apparato forense. Quest’opera austera e precisa nasce dalle scosse successive all’annessione della Crimea del 2014. Ma invece di affrontare quella frattura geopolitica tramite la figurazione o la propaganda, Nikitina l’ha trattata come un evento linguistico—una cancellazione avvenuta non solo sul territorio, ma all’interno della grammatica dello spazio civico.
‘Protocolli scalari’ visualizzava questo collasso attraverso il linguaggio architettonico, presentando strutture sospese in uno stato pre-funzionale. Realizzati in legno grezzo e reticoli scheletrici, i modelli non offrivano orientamento né accesso. Nessun muro, nessun interno, nessun racconto di abitazione. Solo sistemi di circolazione—scale, piattaforme, rampe—che si ripetono all’infinito, come una sintassi in attesa di significato. Non erano modelli per la costruzione, ma strutture grammaticali del fallimento statale.
Allestita nella Lettonia post-sovietica—una regione anch’essa segnata da spettri infrastrutturali e ansie cartografiche—l’installazione vibrava con una ferocia silenziosa. Mentre altri lavori in biennale affrontavano direttamente le questioni di identità o nazione, il contributo di Nikitina rifiutava lo spettacolo. Parlava invece il linguaggio dell’astrazione amministrativa, lo spazio lasciato quando la sovranità si sposta senza conseguenze architettoniche.
Questa preoccupazione per l’architettura come contenitore di discorsi svaniti riecheggia nelle opere successive di Nikitina, in particolare in ‘Il silenzio delle clausole’ (2020), dove una struttura domestica traslucida diventa sceneggiatura fantasma dell’assenza politica, e più recentemente in ‘Architesti’ (2022), dove i piani urbani si trasformano in lessici scultorei a bassorilievo di autorità spaziale redatta. Se ‘Protocolli scalari’ presentava gli scheletri della grammatica civica prima dell’attivazione semantica, ‘Architesti’ scava nel dopovita dell’ideologia costruita: città come fossili dell’intento amministrativo, clausole spaziali spogliate di giurisdizione, congelate in monocromia come discorsi giuridici resi muti. In entrambi i casi, Nikitina resiste alla monumentalità, scegliendo di operare nel registro visivo dell’archeologia semantica—dove le forme materiali del potere statale persistono, anche mentre il loro significato decade.
Ciò che distingue ‘Architesti’ non è solo la sua proposta filosofica, ma la densità formale, evidente nei modelli esposti. Non sono rappresentazioni di città esistenti in senso funzionale o mimetico. Sono compressioni epistemiche—cartografie piegate in rilievi scultorei, astrazioni di potere, controllo, circolazione ed eliminazione.
Si prenda, ad esempio, il pannello con un settore circolare inciso con una griglia radiale: un diagramma astratto della logica della pianificazione centrale. La forma evoca l’ideale panottico e la logica centrifuga dell’amministrazione burocratica. Insieme mappa e modello, sembra la sezione trasversale di un’utopia fallita—un diagramma ideologico di uno stato che ha cercato di trasformare il controllo spaziale in armonia sociale. Ma qui ogni segno di vita è scomparso. La struttura è intatta, ma disattivata. La sua forma è spettrale, il suo scopo svuotato.
Accanto, un altro rilievo mostra una disposizione suburbana apparentemente casuale—irregolare ma rigida, con gruppi disgiunti che orbitano attorno a un vuoto centrale. Gli edifici sono blocchi minimalisti, distribuiti come se fossero posizionati da un algoritmo. Questa configurazione sembra una pianificazione priva di narrazione, un territorio senza comunità. Si suggerisce che la città sia stata disegnata prima di essere immaginata, costruita prima di essere vissuta. L’architettura è ancora lì, ma la sua funzione civica è perduta—erosa dalla guerra, dall’occupazione o dalla lenta violenza del degrado burocratico.
Il modello più inquietante raffigura forse un chiostro urbano, incorniciato da cupole ecclesiastiche e blocchi burocratici, circondato da griglie abitative densamente compatte. Questo schema—probabilmente ispirato all’architettura monastica della Crimea—evoca una spazialità civica divenuta confessionale, dove stato e religione condividevano giurisdizioni sovrapposte. Qui, la pianta si legge come un palazzo della memoria e una mappa dottrinale, articolando la coreografia del potere istituzionale sulla vita quotidiana. La presenza delle cupole tra i vuoti rettangolari non evoca trascendenza spirituale, ma la pietrificazione architettonica dell’ideologia.
A unire questi rilievi è la monocromia uniforme, una palette quasi avorio che elimina la specificità materiale e congela le opere in una stasi semantica. Non è minimalismo estetico né astrazione neutra. È una tattica di sedimentazione—un monocromatismo deliberato che privilegia il significato topologico rispetto alla seduzione visiva. Non sono mappe per orientarsi, ma superfici da decifrare. Non contengono legende, punti cardinali, né scala, e quindi nessuna promessa di navigazione. Resta solo il terreno grammaticale.
L’interesse concettuale di Nikitina risiede nell’architettura come lingua franca del governo perduto. In ‘Architesti’, l’architettura non è più rifugio né simbolo. È un atto di citazione. Queste forme citano ciò che non esiste più—logiche municipali, giurisdizioni territoriali, aspirazioni civiche—tutte erose, ma stranamente preservate nelle loro ossature strutturali. Ogni pannello funziona come una clausola grammaticale: spaziale, sospesa, in attesa di un verbo che non arriva.
Nel contesto di Venezia—il palinsesto urbano più articolato d’Europa—questi pannelli silenziosi non risuonano come assenza, ma come critica. Qui, dove un tempo l’ornamento barocco simboleggiava il dominio dello stato sul cittadino, le topografie quasi vuote e post-linguistiche di Nikitina affermano che, alla fine, ogni impero diventa rilievo.
I suoi materiali—gesso, intonaco misto a cenere, nuclei lignei finemente fresati—non decorano, ma compiono un’archeologia. Nella forma e nel processo, queste opere partecipano a un’esumazione cartografica, dove la memoria non è stata scavata, ma stratificata, compressa in blocchi, lasciati da leggere come si decifrano le rovine della sintassi.
In ‘Architesti’, Nikitina non ha eretto monumenti. Non ha presentato argomentazioni. Ciò che offre è un lessico sedimentato di città scomparse, diagrammi del governo dopo il collasso, sogni urbani fossilizzati in forme tanto precise quanto totalmente inabitabili.
Non sono memoriali.
Sono clausole—non ratificate, sospese, in attesa.
© Per gentile concessione di Palazzo della Zattere (V-A-C Foundation)
‘Protocolli scalari’ di Oleksandra Nikitina, 2019
© immagine Oleksandra Nikitina