
Sull’Estetica della Sparizione Sistemica
Entrare in Fascicolo Permanente Non Reperito significa inoltrarsi in un cul-de-sac epistemologico. Irina Volkova non simula l’archivio — lo disattiva. Installata nella maestosa burocrazia del Palazzo delle Zattere, sotto l’egida della V–A–C Foundation, la mostra rifiuta le coordinate temporali e spaziali della presentazione convenzionale. Non propone un fulcro, né una didascalia chiarificatrice. Piuttosto, riconfigura la galleria in un campo procedurale disperso — un registro disallineato, un luogo di logoramento istituzionalizzato.
Ciò che Volkova mette in scena non è la malinconia romantica dell’oggetto perduto. È la logica procedurale brutale attraverso cui le cose vengono fatte sparire.
Le sue opere a terra — pannelli chimicamente instabili segnati da olio, grafite cerata, corrosione salina e sbavature di solvente — giacciono in pile, griglie, e distese simili a fascicoli. Non rappresentano; registrano. Le loro superfici riecheggiano errori di scansione, metadati sovrascritti, o residui raschiati da server malfunzionanti. Ognuna è trattata come un artefatto contaminato: non preservata, non distrutta — semplicemente intrappolata in una zona di elaborazione indefinita. Nulla in questa mostra si risolve. Tutto è in sospeso.
La nozione di paralisi archivistica di Francesco Tenaglia — la condizione in cui l’eccesso di documentazione produce un fallimento dell’accesso — si rivela centrale. Tuttavia, Volkova non la critica dall’esterno. La mette in atto dall’interno. Le sue vetrine, panche espositive su misura e libri d’artista bianchi evocano la semiotica dell’archivio istituzionale, solo per svuotarne la promessa probatoria. L’informazione qui è sempre a un livello troppo profondo, un campo troppo offuscato, una pagina troppo bianca. Il progetto non fallisce: trattiene.
La strategia estetica di Volkova non si allinea alla traccia espressiva, ma a ciò che il filosofo Federico Campagna definisce incanto tecnicista — un regime in cui la mistificazione avviene non tramite l’assenza, ma attraverso il sovraccarico procedurale. Secondo Campagna, il controllo non si manifesta più attraverso violenza o ideologia, ma tramite la pura densità di sistemi inoperabili. L’installazione di Volkova diventa tale sistema: totale, funzionale e illeggibile.
Vi sono anche echi dell’ecologia dell’invisibile di Emanuele Coccia. Nella sua formulazione, ciò che conta non è ciò che si vede, ma ciò che ci attraversa — perdite, atmosfere, residui. Il lavoro di Volkova incarna questa ecologia della sparizione: i suoi dipinti non presentano immagini, ma atmosfere di cancellazione. Sono respiri, non segni. Corruzioni, non composizioni. Il pigmento oscilla tra residuo forense e dato degradato, come se ogni opera fosse stata rimossa dalla circolazione e poi miscatalogata sotto un codice di riferimento errato.
Anche l’architettura del Palazzo è assorbita nella coreografia della sparizione di Volkova. Venezia, città dell’eccesso archivistico e del decreto sedimentato, diventa il contenitore ideale per un progetto che mette in atto la disfunzione burocratica non come guasto, ma come metodo. I pavimenti levigati e la calma amministrativa del sito della V–A–C Foundation rispecchiano proprio l’estetica che Volkova intende destabilizzare. Il suo intervento non risiede nel contrasto, ma nel raddoppio: non interrompe il linguaggio istituzionale, ne amplifica il silenzio.
Un dittico montato a parete — una metà che richiama il formato del ritratto statale, l’altra una scansione ambientale sfocata — mette in contatto diretto la retorica visiva della sorveglianza con la degradazione pittorica. Una tela vicina, incisa da lunghe verticali nere e segnata da inserti gialli occlusi, appare come un file geografico corrotto: non un luogo, ma un tentativo di mappatura fallito. Queste opere esistono sulla soglia in cui l’immagine diventa infrastruttura — non visualità, ma sistema.
Fondamentale: non vi è una chiave culminante. Nessuna narrazione di resistenza. Nessun momento di recupero redentore. Come scrive Marco Senaldi, «Il problema non è che l’immagine sia insufficiente, ma che l’archivio sia già da sempre sovradeterminato dalla sua sparizione.» Volkova abita precisamente questa condizione. Le sue opere non chiedono di essere interpretate. Rifiutano la fantasia della coerenza. Non sono criptiche; sono codificate. E il codice è inaccessibile per progettazione.
Volkova non piange la perdita. Ne costruisce l’apparato procedurale.
Fascicolo Permanente Non Reperito è attualmente in mostra fino al 19 dicembre 2021 presso la V–A–C Foundation, Palazzo delle Zattere, Dorsoduro 1401, Venezia, Italia.
Si avvisano i visitatori che alcune opere sono chimicamente instabili e si degradano intenzionalmente nel tempo; non è consentito fotografare né toccare le opere.
In Fascicolo Permanente Non Reperito, la sparizione non è un evento. È l’architettura del presente. Il fascicolo non è mancante. È nominato erroneamente. Il documento sopravvive — non attraverso la conservazione, ma tramite latenza strategica.
Il sistema non è rotto.
Sta funzionando esattamente come previsto.