Maschere come tecnologie liminali dell’identità e del disapprendimento

Varvara, artista visiva nata a Mosca la cui formazione attraversa Photofusion a Londra, la School of Young Artist presso PRO ARTE a San Pietroburgo e una pratica autodiretta sviluppata tra Italia e Regno Unito, si è affermata come una voce singolare nell’ambito dell’arte contemporanea basata sull’immagine fotografica. Il suo lavoro, radicato nei processi fotografici analogici e in un’indagine decoloniale, affronta l’identità non come eredità, ma come campo provvisorio di negoziazione. In Fragili monumenti a storie non scritte, porta questa sensibilità in primo piano attraverso una serie di figure mascherate che sfidano le aspettative dello spettatore riguardo a ciò che un’immagine è autorizzata—o ci si aspetta—che riveli.

Piuttosto che introdurre in un ambiente messo in scena, ci si trova davanti a immagini che sembrano precedere il proprio stesso farsi, come se le figure fossero uscite da una storia che non si è mai solidificata in narrazione. Il Palazzo delle Zattere offre un sottotono curatoriale più che una cornice spaziale; la sua presenza richiama la lunga tradizione veneziana di deriva culturale, circolazione intercontinentale ed erosione delle categorie stabili. Tale risonanza sottolinea sottilmente l’interesse della mostra per la soggettività come condizione mutevole e migratoria.

La maestria di Varvara nelle tecniche analogiche è centrale per la forza del lavoro. Presso Photofusion ha sviluppato una pratica di camera oscura che privilegia la lentezza, la sensibilità materiale e l’intervento manuale. Le sue stampe analogiche, insolitamente grandi, richiedono un coinvolgimento fisico: ogni foglio attraversa bagni chimici, esposizioni alla luce e regolazioni tonali controllate a mano che resistono all’automazione. Le immagini risultanti possiedono una tatticità granulosa, una densità incarnata che la stampa digitale non può approssimare. Queste stampe si comportano come oggetti più che come immagini: registrano il tempo, il lavoro e la negoziazione fisica dell’artista con la scala. In un panorama culturale dominato dalla riproduzione digitale senza attrito, l’impegno di Varvara per l’ingrandimento analogico diventa un gesto concettuale—un’insistenza sul tempo come materiale e sul corpo dell’artista come partecipante attivo nella costruzione del significato.

Le figure mascherate occupano uno spazio tra apparizione e affermazione. Una, avvolta in strati di tessuto cucito, presenta un volto che appare insieme antico e provvisorio; un’altra regge una maschera duplicata come se porgesse un sé espulso; una terza, sormontata da una forma simile a un teschio, emana un’inquietante immobilità che rifiuta una chiusura simbolica. Lontano dal folklore o dalla ricostruzione rituale, questi esseri mettono in atto una sorta di antropologia speculativa—non un resoconto di ciò che è stato, ma un’indagine su ciò che potrebbe emergere una volta che le storie dominanti perdono la loro autorità.

Questa carica speculativa riecheggia, pur divergendo, dalle sperimentazioni dell’artista italiana Marinella Senatore, le cui performance comunitarie generano collettività temporanee. Mentre Senatore esplora l’autorialità sociale, Varvara rivolge lo sguardo all’interno per esaminare le architetture interne del sé: le fratture, le sovrapposizioni e le strutture provvisorie attraverso le quali l’identità viene messa in scena. Le sue figure incarnano la soggettività come deriva, come se la forma umana fosse stata tesa attraverso temporalità multiple e ora apparisse solo come residuo o traccia.

Il critico italiano Leonardo Regano, che spesso scrive sull’instabilità del ritratto contemporaneo, osserva che l’immagine di oggi non promette più riconoscimento, ma invita a confrontarsi con i limiti della leggibilità reciproca. Le fotografie di Varvara ampliano questa riflessione eliminando del tutto il volto. La maschera non è un’ostruzione; è un’articolazione. Parla un linguaggio di cuciture, texture ed espressioni irrisolvibili. Allontanandosi dal ritratto psicologico, l’artista apre uno spazio per una diversa comprensione dell’umano—una che resiste alla decodifica biografica e abita invece il territorio dell’ambiguità incarnata.

I paesaggi contro cui le figure si stagliano agiscono come complici silenziosi. Privati di specificità geografica, si comportano come territori non reclamati—campi in cui gli schemi si dissolvono e i gesti si distaccano dalle loro origini. Questi sfondi non contestualizzano le figure; decontestualizzano la storia, eliminando l’impalcatura interpretativa a cui spesso gli spettatori fanno affidamento. Ciò che rimane è una sospensione, un essere in bilico fra stati, un’apertura alla possibilità che le storie non scritte possano avere tanto peso quanto quelle incise in monumenti o archivi.

È in questa sospensione che la mostra trova la sua proposta più convincente. Queste maschere, questi esseri ibridi, questi fragili monumenti—insieme insistono che l’identità non è un’architettura stabile, ma una pratica in divenire. Il disapprendimento diventa non un’azione, ma una condizione, un modo di abitare il mondo senza soccombere alle narrazioni che pretendono di definirlo. Varvara non offre risoluzioni, né ritorni alle origini, né iconografie fisse. Coltiva invece un campo in cui il sé può essere indossato, abbandonato, ricostruito o dissolto del tutto.

Fragili monumenti a storie non scritte è attualmente in mostra presso il Palazzo delle Zattere della V-A-C Foundation a Venezia, in Dorsoduro 1401, dove si svolge dal 14 aprile al 28 luglio 2022, continuando ad accogliere visitatori in cerca di un incontro più profondo con le architetture mutevoli dell’identità. Ulteriori informazioni sono disponibili su www.v-a-c.org o tramite info@v-a-c.org mentre il progetto attraversa la stagione veneziana.

15 aprile 2022

di RAFFAELE BEDARIDA

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